giovedì 25 agosto 2011

Tsunami: anche l’Italia è a rischio. Tanti campanelli d’allarme, ma poca prevenzione


Oggi è l’anniversario dell’evento sismico che interessò, con magnitudo contenuta, le Isole Eolie causando delle frane lungo le falesie costiere, paura e lievi danni ai manufatti. Gli effetti locali furono esaltati dal fatto che avvenne nel pieno delle ferie estive con tutte le località balneari affollate.
L’onda anomala che il 30 dicembre 2002 interessò Stromboli, fortunatamente, trovò deserte le fasce costiere isolane e non causò vittime. Ricordiamo l’evento che si verificò tra le ore 13,12 e 13,14 con due frane lungo il versante della Sciara del Fuoco.
Le riprese televisive evidenziano che lo scivolamento in mare dei detriti di frana e l’impatto con le acque marine non ha innescato un’onda anomala. Dopo qualche minuto è iniziata ad evidenziarsi la perturbazione dell’equilibrio della superficie del mare come repentino abbassamento dell’acqua e poi come rapida risalita dell’acqua marina che rovinosamente ha inondato le coste dell’isola fino ad alcuni metri d’altezza.
La causa più probabile, allo stato attuale delle conoscenze disponibili, è il franamento sottomarino di ingenti volumi di roccia costituenti i versanti instabili sommersi del vulcano sul lato nordoccidentale in corrispondenza della Sciara del Fuoco, anche se non si può escludere che altre frane possano essersi innescate lungo il versante sommerso sudorientale. Nella figura 1 (schemi A, B e C) è schematizzata la probabile successione di eventi. L’accumulo sul versante sommerso dei detriti franati lungo la Sciara del Fuoco (schema A), avrebbe accentuato l’instabilità di un’ampia parte del versante sommerso stesso e il conseguente franamento sottomarino (schema B) di un notevole volume di rocce (numerosi milioni di mc); l’improvviso collasso del fondale avrebbe provocato un “risucchio” con conseguente abbassamento istantaneo del livello del mare (schema B) e la successiva rovinosa risalita dell’acqua marina con conseguente inondazione della parte costiera dell’isola (schema C). Tale improvvisa oscillazione di ingenti volumi di acqua, provocata dalla perturbazione dell’equilibrio marino innescata dalla frana sottomarina, si sarebbe poi trasferita verso l’esterno dando origine alle anomale deformazioni del livello del mare (schema C) che radialmente dalla zona di Stromboli si sarebbero propagate con una velocità variabile in relazione alle profondità del fondale marino.
Il fenomeno sarebbe correlabile con quelli avvenuti nelle ultime decine di anni durante la costruzione del porto di Gioia Tauro e dell’aeroporto di Nizza quando l’accumulo di ingenti volumi di detriti in mare per realizzare le strutture provocò l’improvviso franamento di una parte del ciglio della scarpata continentale. I movimenti franosi sottomarini coinvolsero numerosi milioni di metri cubi di sedimenti che precipitarono lungo la scarpata provocando una istantanea variazione della morfologia dei fondali; il grande “vuoto” connesso al distacco di ingenti volumi di sedimenti causò prima un abbassamento del livello del mare e successivamente un repentino innalzamento con la propagazione di una enorme onda che devastò le aree circostanti.
In base alle ricerche da noi eseguite si evince che le frane sottomarine sono tra i principali motivi tsunami genici dei mari italiani durante il periodo storicamente documentato.
Gli eventi simili che nel recente passato hanno interessato Stromboli sono avvenuti nel luglio 1916 (oscillazioni del livello del mare), maggio 1919 (inondazione delle aree costiere), settembre 1930 (oscillazioni del livello marino con inondazioni), febbraio 1954 (debole tsunami).
Le onde anomale del maggio 1919, settembre 1930 e febbraio 1954 si sono verificate in connessione ad eventi vulcanici esplosivi dello Stromboli.
L’evento esplosivo che ha determinato un notevole impatto sulla popolazione ed una emigrazione in massa con ripercussioni sensibili sull’economia isolana, è quello del 1930. Gli eventi più recenti esplosivi di notevole entità si sono verificati nel 1954 e nel 1993; tra le due ultime date si sono verificati vari eventi esplosivi che talvolta hanno determinato la caduta di frammenti lavici e litici in un’area di circa 1 km di raggio attorno al cratere.
L’evento del 30 dicembre 2002 ha colto impreparate le Istituzioni benchè le ricerche scientifiche avessero evidenziato, da anni, il pericolo per le coste italiane.
Anche la Struttura Nazionale della Protezione Civile ha dimostrato l’inadeguatezza ad affrontare la situazione di emergenza. I principali problemi che si sono evidenziati sono:
  1. incapacità di comprendere immediatamente il fenomeno naturale;
  2. conseguente non corretta valutazione del rischio esistente per l’ambiente antropizzato e gli abitanti dell’Isola subito dopo l’evento.
Impatto sull’ambiente costiero dei recenti tsunami oceanici
Lo studio del materiale fotografico relativo alle aree devastate dagli tsunami del 26 dicembre 2004 e del 11 marzo 2011 ha consentito di ricostruire i più significativi impatti ambientali causati dalle masse d’acqua marina che hanno invaso la terraferma.
Un ruolo determinante, oltre alla vicinanza all’area tsunamigenica e all’esposizione alle onde, hanno avuto le caratteristiche morfologiche della fascia costiera.
E’ stato possibile ricostruire il massimo run up dell’acqua marina (massima altezza sul livello marino)  registrato nelle ampie pianure alluvionali e nelle aree caratterizzate da strette pianure costiere sovrastate da versanti collinari; frequentemente, in queste ultime condizioni, sono stati raggiunti e superati i 30 metri.
E’ stato possibile, inoltre, definire l’altezza delle onde principali all’inizio della terraferma senza amplificazioni locali causate dalle variazioni morfologiche: frequentemente l’altezza massima ha superato i 10 metri.
Tra i più devastanti effetti dei due tsunami sono da evidenziare quelli verificatisi quando le acque marine hanno superato lo spartiacque lungo un istmo che separa una penisola lambita dall’oceano sui due lati. In tali casi l’acqua marina risalita fino ad oltre 30 m di altezza sul mare si è riversata rovinosamente sul versante opposto trasformandosi in un debris flow rapido con un eccezionale potere distruttivo.
Le evidenze raccolte consentono di affermare che, in relazione alla morfologia costiera, le masse d’acqua che dopo avere raggiunto il massimo run up sono ritornate verso l’oceano erano simili ad un debris flow (flusso detritico) che ha trascinato in mare oggetti e persone.
I rilievi eseguiti hanno consentito di individuare i diversi tipi di impatto che gli tsunami possono provocare in relazione all’ubicazione della struttura tsunamigenica e all’esposizione costiera alle onde.
I dati sopra sintetizzati rappresentano la base per valutare i pericoli costieri che interessano le coste italiane potenzialmente interessate da tsunami.
I più diffusi impatti geoambientali causati dai due tsunami sono stati:
  • Distruzione parziale o totale delle spiagge (specialmente quelle prevalentemente costituite da sabbia organogena);
  • Erosione del suolo;
  • Salinizzazione del suolo (dove non è stato eroso) e della falda;
  • Accumulo di sabbia e fango salmastro sulla superficie del suolo urbano e agricolo;
  • Parziale distruzione delle barriere coralline nella zona di Sumatra.
I più diffusi impatti sull’ambiente antropizzato sono stati:
  • Perdita di migliaia di vite umane;
  • Distruzione di manufatti in elevazione (abitazioni, laboratori artigianali, fabbriche, negozi, depositi di carburante e materiale inquinante, strutture turistiche, ecc.);
  • Distruzione di manufatti a raso (strade costiere, viadotti, ferrovie, strutture portuali, acquedotti, fognature, ecc.);
  • Distruzione e gravi danneggiamenti di impianti industriali e artigianali;
  • Distruzione di autoveicoli e imbarcazioni;
  • Distruzione delle colture agricole e di manufatti agricoli (serre ecc.);
  • Inquinamento del suolo e delle acque;
  • Distruzione delle attrezzature per la pesca e l’acquacultura.
Coste italiane e pericolo tsunami
Si ricorderà che un anno fa, il 16 agosto 2010, vi è stato un terremoto alle Isole Eolie avvenuto alle ore 14:54 italiane; il sisma è iniziato ad una profondita’ di 19 km circa (ipocentro), ed è stato caratterizzato da una magnitudo momento Mw = 4.5.
Lipari è la più vicina (alcuni chilometri di distanza) all’area epicentrale ed ha risentito degli effetti locali più significativi rappresentati da dissesti diffusi che hanno interessato i versanti ripidi, palesemente instabili geomorfologicamente, incombenti sull’acqua marina o su strette spiagge (figura 18).
Molto spavento e qualche ferito lieve, danni non troppo severi alle costruzioni, aggravamento dell’instabilità diffusa dei versanti sono stati gli effetti più visibili del sisma. Non si sa quali eventuali effetti vi siano stati nelle zone sommerse circostanti caratterizzati da scarpate ripide come quella che nel dicembre 2002 fu interessata dalla frana sottomarina di Stromboli.
Un effetto indotto dal sisma e dalla “organizzazione umana” post sisma è consistito in un senso di “insicurezza ambientale” che ha invogliato diversi turisti ad abbandonare l’sola prima della scadenza prevista. Un altro effetto scontato è stato lo “scaricabarile” delle responsabilità: chi sta più “in alto”, come al solito, ha individuato alcuni argomenti, di competenza locale o comunque di altre istituzioni, che non sarebbero stati adeguatamente sviluppati come l’inosservanza dei divieti di balneazione, alcune licenze concesse ad esercizi commerciali ecc. ecc..
Sarebbe interessante sapere se: – c’era una adeguata cartellonistica leggibile da decine di metri di distanza sulle spiaggette e lungo le falesie; – che cosa c’era scritto sugli eventuali cartelli: era indicata la distanza di sicurezza alla quale i cittadini dovevano navigare o sostare; – in base a quali valutazioni tecnico-scientifiche erano state delimitate le aree rischiose; – chi doveva tenere lontani i turisti dalle zone a rischio; – è possibile sorvegliare tutti i versanti a rischio delle Eolie e delle altre coste continentali ed insulari.
Boschi, Direttore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia ha affermato che i dissesti sono da attribuire a mancanza di manutenzione del territorio senza rendersi conto che le frane si sono verificate prevalentemente su falesie naturalmente instabili e inaccessibili.
I rappresentanti delle istituzioni hanno dimostrato che gli effetti dell’evento non erano previsti in un piano di protezione civile e che i cittadini nemmeno immaginavano che potesse avvenire un fenomeno simile.
La sorpresa e l’impreparazione hanno “segnato” punti negativi nei turisti presenti a Lipari e potrebbero avere preoccupato altri turisti potenziali italiani e stranieri.
L’evento del 16 agosto 2010 ha improvvisamente aperto gli occhi ai responsabili di istituzioni che devono tutelare l’ambiente e la vita dei cittadini. Si sono resi conto che eventi naturali potenzialmente disastrosi si possono verificare anche durante il periodo balneare nei “paradisi terrestri” quali i monumenti naturali rappresentati dalle Isole Eolie; conseguentemente è emersa l’inadeguatezza del sistema di difesa ambientale e dei cittadini.
Il 24 aprile 2010 nell’ambito di un convegno organizzato a Lipari dal Collegio dei Geometri e Geometri Laureati della Provincia di Messina avevo tenuto una relazione dal titolo “La Sicurezza Ambientale alla base
dello Sviluppo Ecocompatibile e Duraturo” nella quale avevo ribadito che in un territorio (come quello delle isole) che è interessato da continua evoluzione si deve garantire ai residenti e ai turisti la “Sicurezza Ambientale”. Si devono valorizzare le straordinarie bellezze naturali ma non si devono nascondere i problemi
connessi alla natura. Questi ultimi devono essere conosciuti e valutati e si devono attivare preventivamente tutte le necessarie misure tese a garantire la sicurezza dei cittadini. L’uomo deve sapere inserirsi regolamentando le sue attività con buone leggi e provvedimenti che prima di tutto debbono essere sottoposte ad una verifica preventiva di compatibilità con le leggi della natura. Le leggi emanate dal Parlamento Italiano e i provvedimenti degli Enti Locali devono essere in armonia con la Costituzione Italiana:
chi amministra si dimentica, quasi sempre, di verificare come essi si armonizzino con le leggi della natura che di fatto governano le modificazioni fisiche di un territorio in evoluzione. A volte interventi previsti dalle leggi fatte dall’uomo sono messi in crisi da eventi naturali che si manifestano secondo ritmi naturali. Questi ultimi a volte non interferiscono sensibilmente con le attività umane; a volte, invece, si incrociano con le attività umane. Tale evenienza, a volte, determina vere e proprie catastrofi. Le interferenze tra ritmi naturali e
attività umane non avvengono con continuità e interessano parti limitate del territorio. Dove si verificano, comunque, possono esserci eventi catastrofici che mutano radicalmente le preesistenti condizioni: le attività possono essere sconvolte anche per molti anni. L’assetto socio-economico può subire sconvolgenti tracolli specie per i cittadini direttamente investiti dalle catastrofi.
Ragionando sulle esperienze delle ultime decine di anni sembra che gli amministratori (nazionali e locali) si dividano essenzialmente in due categorie: c’è chi non si impegna nella protezione ambientale sperando, facendo i debiti scongiuri o rivolgendosi ai protettori prediletti extraterreni, che durante il loro mandato non avvengano disastri ambientali; c’è chi non si impegna nella prevenzione facendo segretamente voti affinchè si determinino situazioni di emergenza in seguito ad eventi naturali in modo da gestire il “post disastro” con i poteri speciali connessi e la possibilità di spendere disinvoltamente i soldi pubblici in deroga alle leggi ordinarie che regolamentano la spesa pubblica.
E’ noto in tutto il mondo che l’ambiente naturale (ricco di inimitabili “monumenti naturali”) e antropizzato dell’area Mediterranea e del Mezzogiorno d’Italia è esposto ai più elevati rischi naturali permanenti d’Italia (rischio sismico, vulcanico, idrogeologico, geomorfologico).
Le coste sono prive di piani di protezione dagli tsunami: non esiste alcun piano di protezione civile per tale problema che in passato ha seminato centinaia di vittime.
I cittadini sanno che non possono essere eliminati i pericoli ambientali come i terremoti, le eruzioni vulcaniche e gli tsunami, sanno anche che si può adeguatamente organizzare un sistema di protezione della loro incolumità.

INGV e Protezione Civile nazionale e regionale, con la obbligatoria collaborazione di altre strutture di ricerca e di chiunque abbia buone idee, devono supportare i governi per andare verso la certificazione di sicurezza ambientale, particolarmente necessaria per le aree turistiche che garantiscono una consistente parte dell’economia regionale e nazionale.
Certamente un turista preferirà venire in una delle nostre zone turistiche sapendo che sarà ospitato in edifici antisismici e che vi è un valido ed efficace sistema di controllo ambientale in grado di tenerlo correttamente informato e di garantirgli l’incolumità.
Questo ammonimento lanciato in aprile è passato inascoltato: lo rilancio ora con la speranza che sia raccolto, non dai disattenti, ma dai cittadini ed operatori commerciali interessati ad un duraturo, ecocompatibile e continuo sviluppo nella sicurezza ambientale.
L’invito va necessariamente rivolto al Governo Italiano dal quale dipendono Protezione Civile Nazionale e Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Si tratta di un invito rivolto come semplice cittadino che si può trovare in situazioni di emergenza conseguente ad un potente evento naturale. Credo che si debba evitare assolutamente che fatti come quelli accaduti nella primavera del c.a. (crollo di Ventotene) e il 16 agosto nelle
Eolie possano causare vittime e danni alle persone. Bisogna investire negli studi scientifici tesi ad acquisire una conoscenza dei potenti fenomeni geologici e bisogna, obbligatoriamente, adeguare le scelte amministrative ai risultati sovvertendo l’attuale andazzo secondo il quale prima si individua “l’intervento-affare” e poi si”forzano” le conoscenze che ne devono confermare la fattibilità.
E’ ora che sia avviata una nuova attività di ricerca scientifica finalizzata, e certamente non parassitaria, che possa consentire di avere una approfondita conoscenza circa gli effetti dei grandi fenomeni geologici elaborando i dati conoscitivi esistenti ed eseguendo nuovi studi miranti ad incrementare la sicurezza ambientale e dei cittadini. Si tratterebbe di avviare, finalmente, una attività di Protezione Civile basata sulle più avanzate ricerche al fine di elaborare piani di difesa del territorio e dei cittadini; difesa che può anche comportare la bocciatura di interventi pensati e previsti al di fuori delle conoscenze scientifiche qualificate ottenute da ricercatori indipendenti non influenzabili dagli amministratori locali e nazionali.
Nella figura seguente è riportato uno dei tanti cartelli che in molte nazioni indicano che la costa è a rischio tsunami.
Quando vedremo i primi prototipi di segnali, come quelli sotto riportati, lungo le spiagge italiane?

In un articolo pubblicato il  5 settembre 2008 sul Corriere della Sera da Franco Foresta Martin dal titolo “L’Italia a rischio tsunami. Nuova mappa preparata dai sismologi. Oltre mille km di coste da monitorare” si ricordava che “Un maremoto generato da faglie sottomarine comincia a essere pericoloso se il terremoto supera circa 6 gradi Richter di magnitudo. In questo caso la perturbazione che si trasferisce dal fondo marino alle acque soprastanti può arrivare fino a zone costiere lontane centinaia di chilometri con onde alte. Tre sono le più temibili «sorgenti tsunamigeniche » del Mediterraneo finora ben studiate. A est, tra Cefalonia e l’Isola di Creta, l’Arco Ellenico, epicentro di frequenti terremoti, che sembra detenere il record del terremoto storico più forte del Mediterraneo, 8,4 gradi Richter, avvenuto nel 365 dopo Cristo, e seguito da un violento maremoto che investì l’Italia Centro meridionale. A ovest, tra lo Stretto di Gibilterra e il Canale di Sicilia, la lunga catena sommersa dell’Atlante- Tell, anch’essa epicentro di ricorrenti sismi, che nel 2003 ha generato un terremoto di 6,8 Richter al largo della città algerina di Boumerdes, seguito da un maremoto giunto fino alle Isole Baleari. Nel Tirreno meridionale si trova la più modesta ma attivissima fascia sismogenetica Ustica-Eolie, responsabile nel 1823 di un sisma da 6 Richter, cui seguì un maremoto in varie località tirreniche. Gli scenari elaborati dall’Ingv mostrano che, per effetto delle sorgenti tsunamigeniche elleniche, ci sono circa 1.200 chilometri di coste italiane affacciate sullo Ionio e sul Canale di Sicilia, da Bari a Trapani, passando per Taranto, Catanzaro, Reggio Calabria, Catania, Siracusa e Agrigento, in cui l’onda di maremoto può superare il metro d’altezza. Le sorgenti nordafricane potrebbero generare maremoti fino a un metro di altezza sul versante meridionale della Sardegna, e più modeste altrove nelle coste tirreniche. I maggiori terremoti attesi nella fascia Ustica-Eolie possono generare tsunami di mezzo metro nel Palermitano e nel Messinese, oltre che nelle stesse isole a nord della Sicilia. Le altezze calcolate dai ricercatori si riferiscono, tuttavia, all’onda che si presenta davanti alla costa, e che è destinata ad amplificarsi notevolmente quando invade la terraferma. Gli stessi scenari evidenziano il problema più critico del rischio maremoti nel Mediterraneo: date le piccole dimensioni del bacino e le velocità medie di propagazione dell’onda di oltre 300 chilometri orari, in caso di allarme, ci sarebbero soltanto poche decine di minuti o meno per fare spostare la popolazione costiera verso l’entroterra.”
Come si nota si parla di altezza dell’onda al largo, probabilmente per non impressionare i cittadini o per mancanza di dati per poter prevedere gli impatti in relazione alla morfologia costiera e all’esposizione.  
Continua l’articolo citato di Foresta Martin: “Come ci stiamo preparando a simili emergenze? «Innanzitutto sosteniamo con forza la realizzazione del programma di difesa dai maremoti del bacino mediterraneo gestito dall’Unesco, che si baserà sull’integrazione dei dati raccolti da reti sismiche e reti ondametriche di vari Paesi—risponde il professor Bernardo De Bernardinis, dirigente del Dipartimento di Protezione Civile —. Questo progetto, attualmente, ha come responsabile un italiano, il professor Stefano Tinti dell’Università di Bologna. Nel frattempo, poiché il fiore all’occhiello della rete sismica nazionale sviluppata dall’Ingv è la capacità di calcolare tempestivamente i parametri fondamentali di un terremoto, contiamo in una segnalazione immediata di quei sismi in grado di sollevare onde di maremoto, al fine di fare scattare l’allerta». Il modello d’intervento è stato già sperimentato in occasione dell’eruzione parossistica di Stromboli del 2002-03 quando, in seguito a crolli di materiali lavici dalla Sciara del Fuoco, si verificò un maremoto. Allora, temendo il ripetersi del fenomeno, la popolazione veniva invitata, tramite i sindaci e le forze dell’ordine, a spostarsi in luoghi di raccolta sicuri. Poiché una parte dei maremoti potrebbe essere generata da simili eruzioni vulcaniche e frane sottomarine, la Protezione Civile ha finanziato un progetto chiamato «Magic» che consiste in una mappatura dei fondali fino a 3.000 metri di profondità per individuare le potenziali sorgenti di rischio non sismiche.”
L’articolo è di tre anni fa: come stanno ora le cose? Cosa è stato fatto?
Noi abbiamo sostenuto e continuiamo a ribadire che per le coste italiane occorre:
  1. elaborazione di carte della pericolosità da tsunami e di carte del rischio da tsunami in periodo invernale ed estivo. Verificare se le autorità di bacino che hanno redatto il Piano Stralcio del rischio idrogeologico hanno tenuto conto del fenomeno. In caso negativo devono aggiornare gli elaborati secondo direttive scientifiche emanate dal ministero dell’Ambiente.
  2. valutazione del rischio da tsunami delle aree costiere interessate da infrastrutture di notevole rilevanza (aereoporti, porti, centrali elettriche, impianti industriali, strade e ferrovie ecc.);
  3. attivazione di sistemi di monitoraggio ed elaborazione di Piani di Protezione civile per le aree costiere.
Continuiamo a proporre che vi sia una continua formazione obbligatoria con corsi di addestramento multidisciplinari per la preparazione del personale che opera in situazioni di emergenza ambientale.
Numerosi avvenimenti hanno evidenziato che, spesso, vi è una seria carenza nelle pubbliche Istituzioni proprio durante le fasi di emergenza provocate da catastrofici eventi naturali. Comprendere subito con approccio multidisciplinare il fenomeno che ha determinato situazioni di crisi e gli eventuali sviluppi costituisce la base per mettere subito in sicurezza la popolazione e per non esporre a inutili rischi il personale addetto ai soccorsi.

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