sabato 27 agosto 2011

Nell’ospedale dell’orrore tra i cadaveri dei mercenar



TRIPOLI
Ieri era venerdì, qui a Tripoli, il giorno di festa, e perfino la guerra sembrava essersi fermata. Nei posti di blocco i miliziani hanno cominciato a montare gli ombrelloni, per difendersi dal sole che picchia a 50 gradi, e il fuoco dei cannoni e dei Kalashnikov ha taciuto fino a notte, quasi spossato anch’esso dalla calura. Ma anche in questo silenzio irreale, lo sporco lavoro della guerra continuava. Nell’atrio dell’ospedale di Abu Salim, un centinaio di corpi lo ricordava ormai indifferente, disfacendosi come se la carne fosse ancora viva; erano tutti neri d’Africa, o quasi tutti, e nel puzzo dolciastro che rendeva l’aria irrespirabile una decina di volontari – la mascherina sulla bocca, i guanti di lattice, lunghi camicioni verdi fino a terra - li avvolgeva in grandi fogli di plastica, stringendoli con un legaccio alla testa e ai piedi e li ributtava a mucchio sui camion in attesa.

Miliardi di mosche ronzavano irritate per essere state disturbate dal loro pasto pingue, sulle pance aperte, sulle ferite mummificate nel sangue, sulle budella e i cervelli squarciati; e migliaia di piccoli vermi di color tenue brulicavano come impazziti di gioia sulle occhiaie succose dei morti che la calce non aveva ancora coperto. Vi fa schifo? Ah, ne sono felice, amaramente felice, perché quelle mosche dannate e quei vermi che mangiavano muovendosi con delizia sulla carne del cadavere facevano schifo anche a me, e volevo però, volevo, che voi ne condivideste il disgusto che ti acchiappa allo stomaco e non ti molla più che forse non ci dormi nemmeno; perché allora sì che lo schifo che qui vi obbligo a procurarvi dà finalmente un senso a questo sporco lavoro, di chi va in giro a raccontare la guerra e rischia però di trasformarla soltanto in uno show, dove ci sono i buoni e i cattivi, il pumpum da riprendere con telecamere bulimiche, e i soldati che si muovono come se recitassero.

La guerra fa questi morti, queste mosche insaziabili, questi vermi che si muovono oscenamente insensibili davanti a chi li osserva. Fa, la guerra, anche tutto quello che sono andato poi a vedere nell’ospedale di Abu Salim, ora che i miliziani hanno «ripulito» l’intero quartiere (a Tripoli ormai si combatte soltanto nella periferia di Salh alDhin e intorno all’aeroporto), con le teste aperte, le ginocchia frantumate, le ossa rotte, di chi è stato ferito e ancora non si è deciso a morire e riempie di sangue e di urla il pronto soccorso. Un pronto soccorso che è poco più di una stanza sporca di rosso e di polvere, dove i dottori si affannano a ricucire, tamponare, chiudere, stringere di legacci e di filo quello che la carne mostra in tutta la sua impazzita nudità.

Un ospedale di guerra è assai più di un ospedale. È un posto dove spesso si passa a morire, o – quando si è fortunati – si passa a lasciare un braccio, una gamba, anche tutt’e due le gambe. E io guardavo il disgraziato, poco più che un ragazzo, sporco di terra e della sporcizia di chi ha passato i giorni a combattere, che lo stavano tagliando per sperare di salvargli la vita. Una vita che, da ieri, per lui sarà per sempre diversa. Non ne so il nome, non posso dargli nemmeno la stupida popolarità d’una identità stampata sulla pagina d’un giornale straniero; ma certamente sarà una vita diversa. La giovane dottoressa che è venuta da Zawyia a portare il suo aiuto volontario aveva grandi occhi sbarrati di dolore; dirige un centro di pediatria e di psicologia infantile, non aveva mai visto nulla di simile. L’orrore le cambiava il volto, ma non piangeva. Si chiama Arabyia Gajun: «Non debbo e non voglio piangere, perché voglio poter sperare in un tempo migliore».

Perché toglierle le sue illusioni? perché dirle che deve prepararsi a un tempo difficile, a molte amarezze, a un negoziato che il Cnt e Gheddafi stanno conducendo nella oscurità mentre continua la caccia all’uomo, e forse il Colonnello è nascosto sottoterra come Saddam, o forse è nascosto ancora nel suo bunker, o forse è a Sebha, o a Sirte, o forse anche si è mascherato – come sempre faceva che nessuno ora lo riconosce? Perché dirglielo? La guerra costruisce montagne di illusioni e di speranze, apre i cuori e gli animi, lascia immaginare una palingenesi dove tutto si rinnova, si pulisce, odora di buono. «Voglio che sia finito questo orrore», e mi ha portato in una stanza accanto, che era più o meno fredda come dev’essere un posto dove si tengono i morti a non puzzare troppo. Su quattro lettighe, coperte da un foglio di plastica, quattro cadaveri facevano intravedere divise di militari e facce vuote; ma accanto alla finestra c’era un congelatore, di quelli bassi e larghi che s’usano in casa quando si hanno molte provviste da salvare.

«Aprilo, aprilo», mi incitava. Ho sollevato il coperchio, e dentro c’era il corpo di un soldato, ma con le gambe spezzate in modo innaturale, il corpo contorto per farlo stare dentro lo spazio angusto del congelatore, e la testa ruotata all’indietro di 180 gradi. Era un pupazzo sfasciato, ma un tempo era stato un uomo. «Doveva essere uno dell’Est europeo, Gheddafi lo ha fatto buttare qua dentro ancora vivo», e gli occhi sbarrati di quella faccia bianca di morte e di sofferenza, i capelli rossi d’un ucraino o d’un bulgaro, il dolore di uno spasmo bloccato in un lungo istante sospeso tra vita e morte, raccontavano un racconto che anche i lettori di un giornale devono imparare a conoscere come risultato della guerra. Sono andato allora a tentare di trovare almeno un respiro di misericordia, che rendesse più pulita questa giornata di schifezze e di orrore.

E alle 2 del pomeriggio, dopo che il lungo richiamo del muezzin aveva riempito l’aria di echi mistici, mi sono affacciato alla preghiera del venerdì (il sermone della «domenica» musulmana), nella più importante moschea di Tripoli, quella del maulaya Mohammed. Ad ascoltare l’imam non c’era molta gente, sembravano le chiese vuote delle nostre domeniche secolarizzate (più tardi, un anziano signore, alto e altero, un ex ufficiale di Marina mi spiegava in inglese: «La gente non ci crede, che sia davvero finita con Gheddafi, hanno ancora tutti paura»).

L’imam, giovane, la barbetta, gli occhiali ha parlato pianamente per un quarto d’ora, senza una retorica eccessiva, senza grandi sbalzi di tonalità. Ha raccontato che tutto quanto accade è volontà di Allah, che bisogna accettarlo, che dopo la tempesta viene il sereno. E che bisogna saper perdonare. Quando è sceso dalla scaletta gli ho chiesto: «Il progetto d’una nuova Costituzione chiede all’art. 1 che tutti i cittadini siano uguali, senza distinzione né di sesso né di religione. Lei è d’accordo?». Mi ha guardato, si è lisciato la barbetta, poi ha detto abbassando lievemente la testa: «Ma naturalmente, tutti uguali». Uomini e donne? gli ho chiesto. «Sì, uomini e donne». E musulmani e cristiani? gli ho chiesto ancora. «Sì, musulmani e cristiani». E si lisciava la barbetta. La guerra crea speranze e illusioni. Tutte le guerre, anche questa.

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