sabato 23 luglio 2011

Evans, l'eterno secondo finalmente vincente

GRENOBLE - Oggi sarebbe felice. Perché quello che ha fatto Cadel Evans nell'ultima sfida a cronometro che gli ha messo in mano il Tour 2011 è stato grande e commovente. E l'australiano non ha mancato di farlo rilevare alla prima intervista dedicando ad Aldo Sassi, l'indimenticato "professore" scomparso di recente per un brutto male, la conquista della maglia gialla: "Dalla fine del 2001 in avanti è stato uno dei pochi a credere sempre in me, sia quando andavo che bene che quando andavo male. Ma aspettiamo ad esultare: c'è ancora la tappa di domani". La prudenza per il 34enne australiano di Katerine che si presenta sul podio con gli occhi lucidi è davvero d'obbligo. Perché da sempre lui non ha avuto la vita facile nel mondo dei prof del pedale, da quando, nel 2001 è sbarcato sulla strada venendo dalla mountain bike dove si era distinto con due vittorie in Coppa del mondo di cross country (1998 - 1999).

Grandi qualità fisico atletiche e grandi sfortune. "Neppure lui sa quanto può essere forte  -  mi confidò una volta Aldo Sassi - e il giorno che ne prende coscienza non ce ne sarà per nessuno". Quel giorno è arrivato perché Evans ha pedalato la crono della vita finendo secondo dietro l'ottimo Tony Martin, ma soprattutto annichilendo tutti gli avversari dall'alto di una forza e una determinazione gigantesca. Tutti dietro tranne uno. Dal lussemburghese Andy Schleck, cui ha sfilato la maglia gialla già a metà percorso,
 

allo spagnolo Contador, all'ultra specialista del tic-tac, lo svizzero campione del mondo Fabian Cancellara. E lo ha fatto al termine di un Tour condotto con grande accortezza ma sempre in prima linea, dalla prima tappa, quando sullo strappo di Mont des Alouettes si è piazzato a ridosso di uno scatenato Gilbert, alla pronta reazione alle punzecchiature degli avversari diretti, fino alla coraggiosissima risposta all'attacco di Andy Schleck nella tappa del Galibier, dove si è messo in gioco fino in fondo: vincere o morire, trainando il gruppo degli inseguitori fino in cima alla mitica vetta e annullando più di due minuti di vantaggio del lussemburghese. E' stato in quel momento che ha fatto suo il Tour. Il giorno dopo, sull'attacco suicida di Contador a partire dal Telegraph ha saputo rispondere con calma e grande determinazione. Un guasto meccanico (provvidenziale, se reale) gli fece abbandonare le ruote dello scatenato spagnolo, e poi lui, caparbio e sempre in prima persona si è riportato sotto.

Sempre solo contro tutti. Sempre solo senza aiuti. Neanche dalla sua squadra volonterosa assai, ma scarsamente attrezzata per le grandi salite, che ha fatto quello che ha potuto, cioè poco. Eppure non è stato il Tour più duro per lui: "Nel 2008 ero sempre stanco, stressato, non vedevo l'ora di tornare in albergo e dormire. Qui stavo bene e ogni giorno c'era da fare un piano per vedere come limitare i danni". Segno che quando c'è la testa e la forma tutto diventa più facile e sostenibile.

Ingenuità, incidenti, cattiverie subite e cadute sono state con i tanti, tantissimi piazzamenti dell'australiano una costante della sua carriera. Ingenuità: nel 2002 indossa la maglia rosa al Giro a Corvara e la cede il giorno dopo accusando una crisi di fame sul passo Coe, verso Folgaria. Incidenti: nel 2002 si frattura la clavicola sinistra tre volte cadendo alla "Liegi", alla Vuelta e ad una corsa tedesca di secondo piano che gli impedisce di debuttare al Tour. Nel 2010 è maglia rosa nella seconda tapp , ma la deve mollare il giorno dopo per una caduta. Al Tour dello stesso anno cade, si frattura un gomito e perde la maglia gialla. Per non parlare della cattiveria subita alla Vuelta 2010 dove il ritardo (non si saprà mai quanto voluto o provocato) nell'assistenza per un problema meccanico gli costa la vittoria che va al beniamino di casa Valverde: uno dei tanti clienti del famigerato dottor Fuentes, quello dell'Operacion Puerto e del doping ematico allargato a numerosi ciclisti e atleti di altre discipline spagnole.

Ma soprattutto Evans ha avuto la sfortuna di trovarsi a combattere (sempre solo...) in un ambiente profondamente pervaso e condizionato dalla farmacia proibita dilagante. Pur avendo frequentato squadre dalla fama opaca (come la tedesca T-Mobile), l'australiano non è masi stato sfiorato da problemi di doping e neppure da semplici dubbi. Sassi mi confidava in tempi non sospetti che per lui avrebbe messo la mano sul fuoco e che quello che Cadel riusciva a fare era solo frutto delle straordinarie doti del suo fisico. Test e analisi erano lì a dimostrarlo.

Ma lui, l'australiano che vive in Svizzera a due passi da Mendrisio dove nel 2009 ha vinto il titolo iridato, non si è mai lamentato della ingiustizia di vedersi magari sfilare successi e fama da avversari imbroglioni. Anche quando il meccanismo è diventato palese, evidente, dimostrato. Come nel 2007 quando fra piazzamenti e altri risultati gli viene attribuita la Coppa del mondo, la challenge individuale più importante dell'epoca, ma solo perché chi gli arriva davanti finisce nella rete antidoping. Quanti altri successi ha visto sfumare il caparbio australiano? Eppure non ha mai fatto la benché minima polemica, neppure punzecchiato e sollecitato. "Il problema doping c'è, ma il ciclismo sta facendo tanto per combatterlo", mi disse nel 2008 alla vigilia del Giro d'Italia durante un sopralluogo in bici sul tracciato della tappa di Plan de Corones. "Io, comunque, vado per la mia strada".

E la sua strada adesso lo ha portato sul gradino più alto del podio della corsa più importante del mondo. Sarà un caso, sarà una coincidenza, ma l'emersione di Evans inizia proprio quando i dirigenti internazionale cominciano a stringere la rete attorno ai dopati di professione. Quando, calcoli e tempi alla mano, le prestazioni in salita diventano più "umane" e meno "marziane". Così l'eterno secondo, l'eterno piazzato diventa vincente. Ormai è fatta: una breve kermesse (90 km) e poi potrà celebrare il trionfo: il primo di un "canguro" australiano sugli Champs Elisée.

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