domenica 28 agosto 2011

"Irene" irrompe nella Grande Mela

(Xinhua)

L'uragano Irene è arrivato a New York. Gli edifici più alti iniziano a oscillare. "Comincio ad avere un po' di mal di mare e sento la casa muoversi anche se mi stendo sul letto", racconta Anton Williams, studente 25enne rimasto nel suo appartamento al 34mo piano di un palazzo di Manhattan.

Il sindaco di New York Michael Bloomberg, parlando in tv, ha detto che l'estremita' dell'uragano e' già sulla citta, e parlando alla popolazione ha detto "Adesso tutti dovrebbero andare dentro e restare lì. Tenete conto degli avvisi".

Il picco dell'uragano sulla Grande Mela e' previsto dalle prime ore del mattino e il passaggio dovrebbe durare fino al pomeriggio di domani.

Nelle ultime ore le condizioni meteorologiche sulla Grande Mela sono vistosamente peggiorate. La pioggia si fa sempre piu' battente e il vento sempre piu' forte. La citta' ha assunto un aspetto davvero spettrale. Nelle strade non c'è nessuno e i grattacieli sono poco illuminati. Le autorità invitano alla prudenza, a non uscire di casa e a non stare vicino alle finestre.

Atletica, Mondiali: delusione Schwazer, solo nono nella 20 km

Comincia male per gli italiani la seconda giornata ai mondiali di atletica in corso in Corea del Sud. Tutti fuori gli azzurri impegnati oggi, a dispetto delle qualificazioni di ieri di Nicola Vizzoni (che si e' conquistato la finale di domani nel martello) e di Marta Milani che stasera sara' impegnata nelle semifinali dei 400 metri.
Nella marcia 20 chilometri, prima gara della giornata, Giorgio Rubino e' stato squalificato dopo il decimo chilometro quando si alternava in testa con il giapponese Suzuki. Una partenza lenta per tutti, complice il caldo e l'umidita', poi l'azzurro e' andato in testa dove ha rimediato pero' le ammonizioni che lo hanno portato alla squalifica. Visibilmente irato, ha detto ai cronisti che sperava nella gara e che erano anni che non subiva squalifiche. L'altro azzurro in gara, l'altoatesino Alex Schwazer, ha finito la gara nono, ma per lui e' stato comunque un buon risultato viste le sue non esaltanti prestazioni dopo la vittoria olimpica di Pechino. L'oro e l'argento sono andati a due russi: il campione di Berlino Valeriy Borchin ha bissato chiudendo in 1h19'56'', davanti al suo compagno di squadra Vladimir Kanaykin e al colombiano Luis Fernando Lopez.

Nulla da fare per la lanciatrice del peso Chiara Rosa. L'atleta italiana non e' riuscita ad andare oltre i 18,28 metri, lontani dai 18,65 necessari per la qualificazione. Fuori anche l'astista Anna Giordano Bruno che non e' riuscita ad andare oltre i 4,40 metri, 20 centimetri sotto la misura di qualificazione. Niente da fare anche per l'ostacolista Emanuele Abate, arrivato nella sua batteria sesto con 13''63. Nella stessa gara, si e' rivisto il cinese Liu Xiang, dopo mesi di infortuni, secondo dietro l'americano Richardson.
Via libera anche al sudafricano con le protesi di carbonio al posto delle gambe Oscar Pistorius, arrivato terzo nella sua batteria dei 400 metri con il tempo di 45''39 che gli permette di accedere alle semifinali di domani. Diritta alla finale anche l'astista russa Elena Isinbaeva

Le Harley sulle Dolomiti scatenano le polemiche

raduno harley motoL'anno scorso a Pozza di Fassa erano quattro gatti. Ma quest'anno gli organizzatori del Dolomiti Run contano di quintuplicare. Se il tempo reggerà sabato e domenica prossimi Canazei sarà invasa da almeno cinquecento fiammanti Harley Davidson. Un evento, senza dubbio, che crea interesse ma inevitabilmente provoca polemiche e divide. L'Azienda di promozione turistica della Val di Fassa benedice e sponsorizza, sperando in un week end da tutto esaurito. Gli ambientalisti la considerano invece l'ennesima dimostrazione che le Dolomiti Unesco patrimonio dell'umanità sono tanto sulla carta e nelle chiacchiere e ancora troppo poco nei fatti e nelle decisioni politiche.
In verità la due giorni di Canazei non sarà tutto rombi e sgasate. Certo ci sarà la possibilità di provare gratuitamente i nuovi modelli 2011 della leggenda su due ruote e sabato pomeriggio la carovana dei partecipanti andrà ad affrontare in colonna il giro dei quattro passi dolomitici del circondario. Ma poi all'Harley Village si farà anche musica e gastronomia, con gli stand aperti a tutti. Al centro dell'attenzione rimarranno comunque i motori a V della più ammirata tra le moto. E il fatto che tutto questo avvenga nel cuore delle Dolomiti non va giù a chi queste montagne vuole difenderle. Il primo a criticare pubblicamente è stato Michil Costa, albergatore gardenese, che teme tra rumori e gas di scarico un impatto pesante per la fauna locale. Sulla sua scia avanza forti critiche anche il portavoce di Mountain Wilderness, Luigi Casanova, che ieri ha avuto un franco confronto con i vertici dell'Apt. «Nella filosofia di fondo - commenta - Costa ha perfettamente ragione perchè se vogliamo dare un segnale coerente con le Dolomiti patrimonio Unesco gli enti pubblici dovrebbero astenersi dall'appoggiare eventi del genere».

Casanova non vuole però gettare la croce addosso agli appassionati delle HD. «Il fatto è - dice - che non si possono fare discriminazioni. Finchè i passi dolomitici rimangono aperti al traffico come si fa a dire si alle macchine e no alle moto? Se non c'è una regolamentazione e la politica non offre servizi pubblici alternativi per la mobilità in quota ognuno è legittimato a fare e organizzare ciò che vuole». Gira e rigira insomma la colpa è della politica e delle sue contraddizioni. Prima spinge per dare un riconoscimento all'unicità e alla necessità di tutela di una delle zone di montagna più belle del mondo ma poi, una volta ottenuto il marchietto, fa poco o nulla per realizzare in concreto quella tutela. Ed anzi, denuncia Mountain Wilderness, tende ad emarginare le organizzazioni ambientaliste. «Le cinque province dolomitiche - attacca Casanova - devono finirla di escluderci dal confronto. Io dico che dove è possibile bisogna avere il coraggio di dire stop al traffico a motore. E lasciare fuori dalle vette dolomitiche almeno gli elicotteri, con buona pace di politici come Roberto Bombarda e Luca Zeni».

Salvi dopo una notte di paura

VAL DI PEIO. Una notte di paura, ma per fortuna senza tragiche conseguenze, quella vissuta da tre giovani escursionisti rimasti bloccati a quota 3450 metri mentre tentavano di raggiungere il rifugio Vioz. I tre, due ragazzi e una ragazza, di età compresa tra i 27 e i 28 anni e provenienti da Lombardia, avevano programmato l'escursione che dal bivacco Seveso sul passo Gavia, in Comune di Ponte di Legno, li doveva condurre al Vioz, in val di Peio. I tre erano partiti giovedì all'alba per portare a termine la traversata delle 13 cime. Alle 21, dopo aver camminato per tutto il giorno, quando mancavano poco più di 300 metri al rifugio Vioz, uno dei tre escursionisti, stremato dalla mancanza di acqua e senza forze, ha iniziato ad accusare malori di vario genere, che non gli hanno consentito di raggiungere il rifugio ormai vicino. I compagni hanno quindi deciso di dare l'allarme, chiamando il 118 e rimanendo sul posto ad attendere i soccorsi. La richiesta d'aiuto è stata girata al Soccorso Alpino della stazione di Peio e subito Pierangleo Pretti e Tiziano Canella si sono messi in marcia. Prima hanno raggiunto il rifugio Manotva, dove hanno recuperato bevande e coperte, poi hanno proseguito verso il punto in cui si trovavano i tre escursionisti, raggiunti trenta minuti dopo la mezzanotte. Valutata la situazione e vista l'impossibilità di tornare verso valle, a causa delle condizioni critiche di uno dei tre ragazzi, Pretti e Canella hanno deciso di trascorrere la notte in quota insieme ai giovani, attendendo sul posto ulteriori soccorsi che li avrebbero potuti raggiungere solo la mattina seguente. E alle 8.30 di ieri, infatti, i cinque sono stati recuperati dall'elicottero del 118 altoatesino. L'escursionista che si era trovato in difficoltà, in stato di disidratazione e con principio di assideramento, è stato elitrasportato al pronto soccorso dell'ospedale Santa Chiara dove gli sono state prestate le cure necessarie e dove è stato precauzionalmente trattenuto in osservazione.

Macro video with Nikon D3100 and Sigma 50mm 2.8 DG Macro lenses

sabato 27 agosto 2011

L’avveniristico Parco Olimpico di Rio


Le immagini dell'ambizioso progetto per la costruzione delle strutture che ospiteranno i giochi in Brasile
Tra cinque anni Rio de Janeiro ospiterà le Olimpiadi e, rallentamento dell’economia permettendo, in Brasile si stanno dando da fare per costruire gli impianti e le aree di accoglienza che serviranno per i Giochi. L’organizzazione che si sta occupando di Rio 2016 ha annunciato la scorsa settimana il progetto vincitore per la costruzione dell’Olympic Park Urban Masterplan, la grande area che ospiterà il villaggio olimpico, una zona per giornalisti e media e altre infrastrutture in cui si terranno parte degli eventi sportivi.
L'avveniristico Parco Olimpico di Rio

Il progetto vincitore è del fornitore di servizi AECOM ed è particolarmente ambizioso. Gli edifici e le infrastrutture che saranno costruiti, dovranno infatti essere riconvertiti a Olimpiadi finite per costituire una risorsa per la città, e dare anche un senso agli enormi investimenti necessari per la loro costruzione. I dettagli definitivi saranno pubblicati nel corso dei prossimi mesi, tuttavia l’organizzazione di Rio 2016 ha pubblicato le prime elaborazioni grafiche che mostrano come sarà l’Olympic Park una volta completato.L’elemento più evidente è la grande strada centrale ondulata, la “Via Olimpica”, che riprende i motivi e le decorazioni dei marciapiedi a onda con i mosaici in bianco e nero tipici di Rio de Janeiro. La strada renderà facilmente accessibili tutte le principali aree del parco, dal Vilaggio Olimpico a quello per i Media alle aree dove si terranno parte delle gare. A Olimpiadi finite, l’intera zona sarà rivista e modificata con la costruzione di nuove aree residenziali, uffici e il mantenimenti di alcune strutture sportive.


Nell’ospedale dell’orrore tra i cadaveri dei mercenar



TRIPOLI
Ieri era venerdì, qui a Tripoli, il giorno di festa, e perfino la guerra sembrava essersi fermata. Nei posti di blocco i miliziani hanno cominciato a montare gli ombrelloni, per difendersi dal sole che picchia a 50 gradi, e il fuoco dei cannoni e dei Kalashnikov ha taciuto fino a notte, quasi spossato anch’esso dalla calura. Ma anche in questo silenzio irreale, lo sporco lavoro della guerra continuava. Nell’atrio dell’ospedale di Abu Salim, un centinaio di corpi lo ricordava ormai indifferente, disfacendosi come se la carne fosse ancora viva; erano tutti neri d’Africa, o quasi tutti, e nel puzzo dolciastro che rendeva l’aria irrespirabile una decina di volontari – la mascherina sulla bocca, i guanti di lattice, lunghi camicioni verdi fino a terra - li avvolgeva in grandi fogli di plastica, stringendoli con un legaccio alla testa e ai piedi e li ributtava a mucchio sui camion in attesa.

Miliardi di mosche ronzavano irritate per essere state disturbate dal loro pasto pingue, sulle pance aperte, sulle ferite mummificate nel sangue, sulle budella e i cervelli squarciati; e migliaia di piccoli vermi di color tenue brulicavano come impazziti di gioia sulle occhiaie succose dei morti che la calce non aveva ancora coperto. Vi fa schifo? Ah, ne sono felice, amaramente felice, perché quelle mosche dannate e quei vermi che mangiavano muovendosi con delizia sulla carne del cadavere facevano schifo anche a me, e volevo però, volevo, che voi ne condivideste il disgusto che ti acchiappa allo stomaco e non ti molla più che forse non ci dormi nemmeno; perché allora sì che lo schifo che qui vi obbligo a procurarvi dà finalmente un senso a questo sporco lavoro, di chi va in giro a raccontare la guerra e rischia però di trasformarla soltanto in uno show, dove ci sono i buoni e i cattivi, il pumpum da riprendere con telecamere bulimiche, e i soldati che si muovono come se recitassero.

La guerra fa questi morti, queste mosche insaziabili, questi vermi che si muovono oscenamente insensibili davanti a chi li osserva. Fa, la guerra, anche tutto quello che sono andato poi a vedere nell’ospedale di Abu Salim, ora che i miliziani hanno «ripulito» l’intero quartiere (a Tripoli ormai si combatte soltanto nella periferia di Salh alDhin e intorno all’aeroporto), con le teste aperte, le ginocchia frantumate, le ossa rotte, di chi è stato ferito e ancora non si è deciso a morire e riempie di sangue e di urla il pronto soccorso. Un pronto soccorso che è poco più di una stanza sporca di rosso e di polvere, dove i dottori si affannano a ricucire, tamponare, chiudere, stringere di legacci e di filo quello che la carne mostra in tutta la sua impazzita nudità.

Un ospedale di guerra è assai più di un ospedale. È un posto dove spesso si passa a morire, o – quando si è fortunati – si passa a lasciare un braccio, una gamba, anche tutt’e due le gambe. E io guardavo il disgraziato, poco più che un ragazzo, sporco di terra e della sporcizia di chi ha passato i giorni a combattere, che lo stavano tagliando per sperare di salvargli la vita. Una vita che, da ieri, per lui sarà per sempre diversa. Non ne so il nome, non posso dargli nemmeno la stupida popolarità d’una identità stampata sulla pagina d’un giornale straniero; ma certamente sarà una vita diversa. La giovane dottoressa che è venuta da Zawyia a portare il suo aiuto volontario aveva grandi occhi sbarrati di dolore; dirige un centro di pediatria e di psicologia infantile, non aveva mai visto nulla di simile. L’orrore le cambiava il volto, ma non piangeva. Si chiama Arabyia Gajun: «Non debbo e non voglio piangere, perché voglio poter sperare in un tempo migliore».

Perché toglierle le sue illusioni? perché dirle che deve prepararsi a un tempo difficile, a molte amarezze, a un negoziato che il Cnt e Gheddafi stanno conducendo nella oscurità mentre continua la caccia all’uomo, e forse il Colonnello è nascosto sottoterra come Saddam, o forse è nascosto ancora nel suo bunker, o forse è a Sebha, o a Sirte, o forse anche si è mascherato – come sempre faceva che nessuno ora lo riconosce? Perché dirglielo? La guerra costruisce montagne di illusioni e di speranze, apre i cuori e gli animi, lascia immaginare una palingenesi dove tutto si rinnova, si pulisce, odora di buono. «Voglio che sia finito questo orrore», e mi ha portato in una stanza accanto, che era più o meno fredda come dev’essere un posto dove si tengono i morti a non puzzare troppo. Su quattro lettighe, coperte da un foglio di plastica, quattro cadaveri facevano intravedere divise di militari e facce vuote; ma accanto alla finestra c’era un congelatore, di quelli bassi e larghi che s’usano in casa quando si hanno molte provviste da salvare.

«Aprilo, aprilo», mi incitava. Ho sollevato il coperchio, e dentro c’era il corpo di un soldato, ma con le gambe spezzate in modo innaturale, il corpo contorto per farlo stare dentro lo spazio angusto del congelatore, e la testa ruotata all’indietro di 180 gradi. Era un pupazzo sfasciato, ma un tempo era stato un uomo. «Doveva essere uno dell’Est europeo, Gheddafi lo ha fatto buttare qua dentro ancora vivo», e gli occhi sbarrati di quella faccia bianca di morte e di sofferenza, i capelli rossi d’un ucraino o d’un bulgaro, il dolore di uno spasmo bloccato in un lungo istante sospeso tra vita e morte, raccontavano un racconto che anche i lettori di un giornale devono imparare a conoscere come risultato della guerra. Sono andato allora a tentare di trovare almeno un respiro di misericordia, che rendesse più pulita questa giornata di schifezze e di orrore.

E alle 2 del pomeriggio, dopo che il lungo richiamo del muezzin aveva riempito l’aria di echi mistici, mi sono affacciato alla preghiera del venerdì (il sermone della «domenica» musulmana), nella più importante moschea di Tripoli, quella del maulaya Mohammed. Ad ascoltare l’imam non c’era molta gente, sembravano le chiese vuote delle nostre domeniche secolarizzate (più tardi, un anziano signore, alto e altero, un ex ufficiale di Marina mi spiegava in inglese: «La gente non ci crede, che sia davvero finita con Gheddafi, hanno ancora tutti paura»).

L’imam, giovane, la barbetta, gli occhiali ha parlato pianamente per un quarto d’ora, senza una retorica eccessiva, senza grandi sbalzi di tonalità. Ha raccontato che tutto quanto accade è volontà di Allah, che bisogna accettarlo, che dopo la tempesta viene il sereno. E che bisogna saper perdonare. Quando è sceso dalla scaletta gli ho chiesto: «Il progetto d’una nuova Costituzione chiede all’art. 1 che tutti i cittadini siano uguali, senza distinzione né di sesso né di religione. Lei è d’accordo?». Mi ha guardato, si è lisciato la barbetta, poi ha detto abbassando lievemente la testa: «Ma naturalmente, tutti uguali». Uomini e donne? gli ho chiesto. «Sì, uomini e donne». E musulmani e cristiani? gli ho chiesto ancora. «Sì, musulmani e cristiani». E si lisciava la barbetta. La guerra crea speranze e illusioni. Tutte le guerre, anche questa.

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